In molti paesi più civili del nostro le presentazioni di libri con la presenza dell’autore vengono proposte come pena alternativa all’impiccagione. Solitamente il condannato si esibisce in nodi fatti meglio di quelli di Capitan Findus.
Ora, succede che ho fatto tre presentazioni in otto giorni. Praticamente una strage.
Eppure, a guardare il fiasco mezzo pieno, c’è da sorridere e molto. Primo perché quando ricevi dei fiori il sorriso viene spontaneo, secondo perché meglio fiori che pomodori, per dire.
Fiori? Sì insomma, fiori per analogia, fiori di quelli che ti porti via e non sfioriscono finché non li scolorirà l’alzheimer. Fiori, perché i sentimenti, il calore e l’empatia messi in moto dalle parole ti sbocciano dentro quando sono così carnosi, cangianti e profumati che non solo ci godi, ma che ti senti addirittura nella versione meno fregnona della canzone della Pizzi.
Perciò andiamo con ordine:
Sabato 6 novembre sono stato a Musikrooms, un circolo culturale con una storia speciale: Andrea Vettoretti è un valentissimo chitarrista cresciuto nella opulenta Treviso, che adesso gira il mondo a farci fare (almeno lui) bella figura. Potrebbe tornarsene a casa a sfighettare per la città come certi suoi e miei concittadini, quelli che l’unica testa che hanno è nel cofano della Maserati, e invece investe energie, tempo, denaro e relazioni per offrire una parte della sua casa a incontri, concerti, proiezioni e presentazioni, convinto com’è che nel deserto che ci circonda anche la più piccola delle oasi sia indispensabile a tenerci fuori dal Pianeta delle Cugine nel quale sembriamo destinati a precipitare da un momento all’altro.

Andrea Vettoretti e Mauro Gasparini
Per la bellissima serata devo ringraziare anche la gentilissima Yağmur e soprattutto l’esplosiva ed enciclopedica Marisol Rossetti, che in una normale giornata di 25 ore riesce a fare di tutto, perfino lavorare… Se l’incontro con Andrea, un mio quasi vicino, è avvenuto, lo devo a lei.
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Veleno alla Feltrinelli di Padova
Giovedì 11 poi ho presentato Veleno alla Feltrinelli di Padova. La Feltrinelli!
Non so come dirlo, ma a sprazzi, stare lì al primo piano con tutte le copie del romanzo buttate sul tavolino tipo schiaffo alla miseria, mi sentivo un po’ un impostore.
Vedere Nadia e Eleonora, colleghe e soprattutto lettrici appassionate mi ha dato un po’ di coraggio, almeno finché non è uscito dall’ombra dell’ultima fila il signor Borsa: uno che i libri li aveva letti tutti e due e che li ha già ricomprati per amici e parenti, uno che è tornato per un giorno dalle ferie per comprarsi Dammi un bacio. Un mito! Di più, un bouquet.
Sabato 13, alla fine di questa settimana floreale, sono arrivato a Chiari (BS) per la Rassegna della Microeditoria e lì sono arrivati i mazzi più grandi, tipo baobab.
A Villa Mazzotti Biancinelli, tra un centinaio di microeditori che proponevano i loro microlibri, le ragazze delle Bolle Blu dispensavano baci (anche Catalanici), con una destrezza che lasciava spiazzate le donne e tramortiti d’amore gli uomini.
E qui, su una terrazza bresciana affacciata su un giardino italiano monco, strozzato nella prospettiva come molta altra parte del Paese, al tepore delle braci di svariate sigarette, ho ricevuto il dono di una scoperta: la straordinaria lettura analitica di Dammi un bacio fatta da Gianluca Gambatesa. Raramente qualcuno mi ha restituito con tanta precisione e profondità, con tanto affetto e intima corrispondenza, i dettagli e allo stesso tempo il senso più generale del lavoro che ho fatto negli ultimi 20 anni. Una sensibilità che incanta e allo stesso tempo muove nuovamente emozioni assopite, all’improvviso, come i rivoli di sudore sulle rughe del nonno.
Qui di seguito una recensione di Dammi un bacio che Gianluca ha scritto su Anobii, con l’avvertenza che si tratta di un bellissimo racconto su un racconto.
“Dighe che ea ghe ne meta poco, chel fa mae”
Soffia un vento caldo in questi giorni, un vento che solleva polvere, l’asfalto che brucia. Ho le mie sigarette, all’ombra degli alberi un tappeto sonoro fatto interamente di cicale. Leggo un racconto, mi fermo, accendo una sigaretta. Ho sempre trovato scomodo – direi fastidioso – leggere e al contempo fumare. M’immergo nella campagna veneta, mi sembra di sentirle quelle parole, il suono di quella lingua che sa di terra, di fatica, di noia, di repentini cambiamenti d’umore, di speranza e disperazione. A ogni racconto terminato segue il gesto di sfilare una sigaretta; l’accendo, e mi ritrovo improvvisamente distante da tutto quel che mi è attorno. La mano s’avvicina alle labbra – gesto meccanico – aspiro il fumo, lo sguardo incapace d’indugiare su un punto che sia uno. Quei momenti in cui si guarda altrove, e si pescan ricordi. Non può trattarsi che di questo. M’aiuta il non aver trovato giudizi disseminati lungo la trama del racconto, e mi regolo di conseguenza, limitandomi a richiamare le immagini alla memoria. E ricordo l’infanzia, l’idea del tempo, degli adulti, che avevo allora. E penso all’oggi, al desiderio di mutare continuamente punto di vista, a quell’espressione che a volte compare sul volto quando volgiamo lo sguardo ai giorni andati e pensiamo che, tutto sommato, non era affatto male. Ecco che quelle del mio passato si perdono tra le immagini richiamate dall’autore. O, forse, il contrario. Dico bene, le immagini dell’autore. Una scrittura che pare fatta di pennellate, i grumi del colore lì a ricordare allo sguardo intento a fissarli che non di realtà si tratta, ma di una sua rappresentazione. Eppure quella rappresentazione, della realtà, ha tutto. E quei grumi paiono il frutto di uno sguardo esitante, conseguenza di un moto di rabbia, segni della fatica o dello stupore che immobilizza e ammutolisce. La mente indugia su un particolare. I pensieri si muovono tra mille parole, e ne cercano una. E la mia, di mente, s’aggrappa a sapori e odori richiamati dalle parole lette un istante prima. L’umore dei corpi, il tanfo della carne che si decompone, l’aglio. Corpi che attraggono, con tutt’attorno quell’aura – inconsistente eppure densissima – che sembra volerti scuotere, gridarti contro che la carne è preda del tempo. Leggo e mi pare di sentir la fatica di chi ha scritto, d’assistere a quegli sforzi volti a dar disciplina alla frase, a impreziosirla con un lavoro sulla lingua e sul linguaggio. Lettere. Suoni. Materia. E quella fatica mi contagia e mi rapisce. C’è un odore che aleggia in ciascuno dei racconti, odore che a volte definiresti profumo, altre ti costringe a disperate apnee. E che ti segue ovunque, pur negli istanti in cui t’illudi di poterlo afferrare continuando a correre in avanti.
La presentazione poi è scivolata via liscia come grappa di qualità, con i miei sodali appassionati e il pubblico numeroso e attento.
Questa rara alchimia, e la copertina del sempresiabenedetto Riccardo Mannelli, ha dato l’impulso a una tornata di vendite che dovrebbe ben far riflettere anche qualche giornalista non impantanato nell’esegesi del rubysmo.
Prossima tappa Londra, al grido di “the book is on the table!”.
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